LA FRAGILITA’ DI GESU’ – Angelo Casati

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LA FRAGILITÀ DI GESÙ

Di Angelo Casati                                                                                         per la rivista Esodo 2013

Don Angelo Casati - 7-angelo-casatiAlle orecchie dei devoti, dei troppo devoti, può sembrare pericoloso o addirittura dissacrante parlare di una “fragilità” di Gesù. Quasi fosse attentato devastante alla sua divinità. Ma saremmo falsamente devoti al mistero che abita Gesù se, allontanando sdegnosamente da lui ogni ombra di fragilità, finissimo per cancellarne ogni ombra di vera umanità. E dovremo forse chiamare ombra la fragilità di Gesù? O non appartiene forse alla nostra natura l’essere fragili?

Ci sono fragilità nella nostra natura che vanno, se pur faticosamente, superate, ce ne sono altre che vanno semplicemente riconosciute. In sincerità. In sincerità verso Dio e verso se stessi.

Questo mio discutibile dire in modo rapsodico di Gesù e della sua fragilità va per accensioni che nascono dalle pagine dei vangeli. Il mio dire non ha dunque la pretesa delle sintesi teologiche, segue domande e provocazioni che si rincorrono perdutamente nelle pagine e poi nel cuore di un lettore comune del vangelo. Pensieri in attesa di altri pensieri.

NGesùato da donna, scrive Paolo. Da un grembo di donna. Fragile quel cucciolo d’uomo, fragile il grembo, come tutti i grembi di donna. Sgusciò in un contesto di fragilità, una lampada fioca in mano a Giuseppe, forse l’altra mano – sto immaginando – a stringere tenera quella di Maria, a darle spinta di forza nel travaglio del parto. Fragile, inerme il bimbo, in bisogno di fasce, di fasce e di latte, quello della madre. Nato da donna. Donna che lo introdusse, mettendolo alla luce, nel territorio della fragilità.

SamaritanaLo introdusse così nella fragilità del corpo. Che lui accusava come tutti noi. Accusava stanchezza a tal punto da prendere sonno, e profondo, sulla barca nella traversata in piena notte del lago e nemmeno la bufera delle onde a svegliarlo. Accusava stanchezza e pure sete. Quel mezzogiorno in una delle sue traversate di regione sentì morso di sete, seduto stanco a un pozzo di Samaria chiese da bere a una donna in cerca di pozzi. Come tutti noi non risparmiato dalla fame, lo annotano gli evangeli: era mattino di inizio aprile, il giorno prima era entrato a dorso di puledro in Gerusalemme, quel mattino mentre usciva da Betania ebbe fame, ma il fico cui erano andati i suoi occhi aveva bellezza di forme ma vuoto di frutti. Ci rimase male.

A volte poi non gli reggevano proprio le forze fisiche, se ne accorsero quel giorno, poco fuori il pretorio, quando costrinsero un uomo di Cirene a portare dietro lui la sua croce.
Direi, approfondendo, come tutti noi fragile nel territorio dei sentimenti.

Non era roccia immobile, nè quercia con fronde impassibili a urli di bufere. Non tetragono come quelli che sbandierano indifferenza agli assalti della vita, pagò lungo i suoi giorni debiti di fragilità, come succede a ciascuno di noi.

A volte a scuoterlo, ad amareggiarlo sino a farlo impetuosamente dolorosamente sbottare senza quasi più contenersi, era la nostra avvilente ottusità: “O generazione incredula! Fino a quando sarò con voi, fino a quando dovrò sopportarvi?”.

Certo non si preoccupava di trattenere se stesso in sequestro assoluto dei sentimenti, quel sequestro che in taluni uomini di spirito sembra a volte, o spesso, sfiorare l’impassibilità. Non preoccupato di guardarsi dall’accensione dello sdegno, né di guardarsi, se è debolezza, dall’accensione improvvisa dei sogni. E, se cedere ad accensioni rimane nella mente di qualcuno sintomo di fragilità, Gesù proprio non mise in atto nessun esercizio per sfuggirla.

La sua predicazione senza diplomazie, soprattutto verso le autorità religiose, conobbe i toni aspri e ruvidi, quasi impietosi, senza nascondimenti e senza contenimento, con l’esito di opposizioni altrettanto dure, violente, segnali per lui di una morte annunciata. Accadde anche che qualche volta i discepoli stessi lo invitassero a moderare i toni. Ma lui resistente a ogni invito che suonasse cedimento a calcoli umani. Gli interessava Dio, gli interessava la difesa a tutto campo della dignità di noi umani. Schiettezza senza moderazione a prova di morte.


Gesù -cecco-del-caravaggio-la-cacciata-dei-mercanti-dal-tempioLo consumava, senza moderazioni di sorta, zelo per la casa di Dio , per il vero volto di Dio e dell’uomo. E tutti noi a ricordare ciò che avvenne nell’avvicinarsi di quella pasqua. Un gesto voluto. Giovanni annota il particolare di Gesù che annoda le cordicelle per farne una sferza: “fatta allora una sferza di cordicelle…”. Consumato dallo zelo, cacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi. E non si limitò, non si contenne, non gli bastarono le parole: “Gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi e ai venditori di colombe disse: Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato”. Fragile davanti alle emozioni?

Lontano anche dall’ideale dell’uomo di spirito che ha in somma cura l’arte di sorvegliarsi, allontanandosi da ogni forma di eccesso persino nei sogni. Per fedeltà spenta al reale. Non è forse vero che un giorno i discepoli, di ritorno da una compera di cibo nel villaggio più vicino, lo trovarono a parlare con la donna di Samaria, così preso dall’acqua, che la sua parola aveva disseppellito dal cuore della donna, da abbandonarsi a visioni di sogno? Lui in quel sole caldo li invitò sorprendendoli a contemplare campi biondeggianti di grano in anticipo di mesi. Quanti maestri dello spirito gli avrebbero gridato di guardarsi da quelle farneticanti esaltazioni invocando un minimo di moderazione!

I vangeli, a differenza di quello che avremmo fatto noi perché non apparissero in lui ombre di “debolezza”, non nascondono, non censurano, anzi raccontano senza esitazioni di sorta i suoi turbamenti.

Un turbamento sino al pianto. Non stava certo nella figura dell’uomo forte, quello che non si scompone, che tiene alto il suo profilo in ogni evenienza. Turbato sino al pianto, narra il vangelo. Pianto per morte di un amico. Né si preoccupò di nascondere quella che alcuni ancora chiamano fragilità e debolezza. Apertamente. Tutti lo videro, tutti a dare testimonianza di quanto lui amasse Lazzaro.

La fragilità dell’anima turbata. C’è chi non si lascia mai turbare nell’anima, imperturbabile, c’è chi nasconde il suo turbamento. C’è chi come Gesù il turbamento lo patisce straziante ruvido sulla pelle scorticata, sente il cuore tremare e lo confessa senza falsi pudori.

Non ho titolo accademici per confortare una tesi, ma mi ha sempre colpito un confronto tra il racconto delle tentazioni subite da Gesù nei quaranta giorni passati nel deserto e il racconto delle tentazioni subite da Gesù durante la sua esistenza e in modo particolare nell’ultimo scorcio della sua vita. Il racconto del deserto sembra, mi si perdoni, cancellare ogni figura di fragilità. Mi sono chiesto se gli evangelisti volendo raccontare la vittoria sulla tentazione non abbiano calcato sulla libertà estrema luminosa del Rabbi di Nazaret che sfugge, ed è affascinante, ad ogni sequestro e imprigionamento. Mi sono chiesto se gli evangelisti nell’intento di raccontarci l’atto estremo, quello conclusivo, vittorioso delle tentazioni non siano nelle stesso tempo incappati nella necessità, forse non voluta, di sottacere il percorso psicologico e il travaglio che segnarono anche duramente corpo mente e cuore del Signore nel cammino verso un simile atto di libertà e di amore, estremi!
Stando al racconto dei vangeli non potremmo certo dire che Gesù le scelte, soprattutto quelle estreme, le abbia affrontate con animo spavaldo, bensì pagando alla fragilità umana un caro prezzo. Scelta a caro prezzo dentro un debito di confessata riconosciuta debolezza. Dentro un debito di vero, non finto turbamento.

Crocifisso - passioneIl pensiero mi corre a un giorno che per Gesù già odorava di passione, passione estrema. Vicina era la Pasqua. Tra quelli saliti per il culto c’erano anche dei Greci. Forse non giudei? O forse proseliti? Non sappiamo. Comunque non gente del recinto, non appartengono al recinto d’Israele. Si sentono attratti da un desiderio. Di vedere Gesù: “Signore, vogliamo vedere Gesù” dicono a Filippo. Quelli vogliono vedere Gesù. E non sono del recinto. E allora Filippo prende con sé Andrea, vanno in due a parlarne a Gesù. Ma lui risponde in modo enigmatico. Risponde: “E’ giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo”. Trono della gloria per lui è la croce. La croce per lui il luogo – è paradossale dirlo – della massima attrazione: “quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”. E’ come se Gesù pensasse: arrivano anche i pagani? Anche loro attratti? Ma allora è vicina l’ora della croce, l’ora della attrazione che di più non si può. Che cosa vedrà quel gruppo di Greci? Vedranno un chicco di grano cadere nella terra. Gesù ha davanti agli occhi la vicenda del chicco di grano. Ebbene l’ora della sua morte non la affronta in modo spavaldo, come fosse un passaggio naturale. No, anche lui turbato. Turbato da questi greci che con la loro presenza gli ricordano che l’ora della discesa nella terra è vicina. E Gesù si svela, si svela nel suo turbamento, nella sua fragilità. Non è come noi che ipocritamente, per falsa immagine di spiritualità, vogliamo esibire una fede senza turbamenti. Lui dice: “Ora l’anima mia è turbata”. E sarebbe anche tentato di allontanare quell’ora.

Gesù nell'orto degli uliviAggiunge: “E che devo dire allora? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora. Padre, glorifica il tuo Figlio”. Gesù non chiede di essere risparmiato, ma di essere glorificato. Il legno diventerà il luogo della gloria. Accoglie la sua ora, ma dopo aver attraversato senza sconti il mare del turbamento dell’anima, il mare della sua fragilità.

Ebbene per uno come me che cerca, da povero cristiano, di spiare Gesù e la sua vita, per lasciarsene in qualche misura contagiare, è fonte di non povera consolazione il fatto che Gesù stesso nel suo cammino verso la croce abbia conosciuto fragilità e turbamento. Lo confesso, me lo sarei sentito meno vicino, meno compagno del viaggio, se non ne avesse spartito con me il turbamento, se verso la morte fosse andato con passo spavaldo, da eroe, il forte cui non trema il cuore.

Leggo nei vangeli che, nell’orto, in vigilia di morte “cominciò a spaventarsi e a sentire angoscia”. Confessò tristezza: “Ora – disse – l’anima mia è triste fino alla morte”. E gli ulivi lo videro sudare sangue di morte.

Messia chino sulle debolezze degli umani, abitò la nostra esistenza, una fragile tenda, un telo di vento. Abitò la nostra fragile carne.

Superò la fragilità, anche quella estrema, oserei dire, con un nome che si affaccia, costantemente, connessione intrigante, nell’ora della debolezza: “Padre”. “Padre” nell’ora dell’arrivo dei greci: “Ora l’anima mia è turbata. Che devo dire? Padre salvami da quest’ora? Padre, glorifica il tuo Figlio”. “Padre” ancora nella notte degli ulivi: “Padre, se vuoi allontana da me questo calice: tuttavia non sia fatta la mia ma la tua volontà”. “Padre” nell’ora della croce dopo l’urlo che ferì il cielo, “Dio mio Dio mio, perché mi hai abbandonato”, urlo, estrema fragilità. Dopo l’urlo l’invocazione struggente, pure grido a gran voce: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Una fragilità consegnata alla preghiera, sollevata dalla fiducia in un Padre che non abbandona nel grido i suoi figli.

Ci emoziona nella preghiera di Gesù quel perseverare, nonostante tutto, a dare a Dio il nome di Padre, con una confidenza che ci rabbrividisce: “Abbà!”. Ci rabbrividisce, e ci insegna una immagine più autentica di preghiera. Dentro un dilemma: pregare perché ci siano risparmiati i passaggi faticosi, le tempeste della vita o pregare perché non veniamo meno, perché non ci sentiamo soli e abbandonati nell’attraversamento? Come ci fa pregare il salmo: “Anche se vado per valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me” (Sal 23,4).

Nella fragilità, a sostegno, Gesù cercò il volto di Dio. Dobbiamo però, per debito di verità, aggiungere che nel momento della fragilità lui cercò anche volti di amici, senza minimamente velare questo suo bisogno profondo di vicinanze anche umane. Mendicante di amicizie e di affetti.

Il racconto del giardino narra quel suo andare in cerca degli amici e la desolazione di trovarli addormentati, quasi non ci fossero. Per tre volte disegnati nel racconto quei passi in ricerca, per tre volte raccontata la delusione: “Venne e li trovò addormentati…venne di nuovo e li trovò addormentati…venne per la terza volta e disse loro: Dormite pure e riposatevi. Basta! E’ venuta l’ora: ecco il Figlio di dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi e andiamo”.

Una fragilità la sua, come la nostra che anela ad essere riconosciuta e sollevata da chi ti ama. I vangeli ci raccontano di Gesù che, nei primi giorni della settimana che vide la sua passione e la sua morte, cercava rifugio, rifugio del cuore, passando le sere e le notti a Betania, in casa di amici. Aperta la porta per l’amico, l’amico che sentiva la pressione, ormai vicina, delle croce.

Maria di BetaniaE non fu proprio a Betania che all’inizio di quella settimana che si preannunciava decisiva, decisiva di morte, per Gesù, una donna amica, Maria, in quella cena si accorse, lei sola, del segreto che pesava sul cuore del suo amico e maestro, ora che il cappio stava per soffocarlo una volta per sempre? E lei a ungerlo e a profumarlo con un profumo che fece gridare tutti per l’eccesso di uno spreco! E Gesù, a fronte dei discepoli così lontani dal capire che cosa gli passasse nel cuore, a difenderla: lei era arrivata, con gli occhi di chi ama, a intravedere, a capire, ad accogliere un bisogno segreto del cuore.

Dono, per chi attraversa il buio della fragilità, la luce che pulsa dal volto di un amico, di una amica. Dono inestimabile è avere al fianco uno che ti legga nel cuore, uno che vegli sulla tua angoscia, consapevole di non potertela purtroppo cancellare, ma pronto a portarla con te. Gesù sembra raccontare la improponibilità di una fede, in forza della quale presuntuosamente si arrivi a dichiarare che basta Dio a noi stessi.

Cercò il volto del Padre, cercò il volto degli amici.

Angelo Casati

«VIVERE I GIORNI FERIALI CON IL CUORE DELLA FESTA» – C.M. Martini

Carlo Maria Martini - Credo la vita eterna

Carlo Maria Martini – Credo la vita eterna
L’angoscia della morte e l’audacia della speranza

Una riflessione con Carlo Maria Martini sull’ultimo articolo del Credo

di Robert Cheaib

ROMA, sabato, 20 ottobre 2012 (ZENIT.org).

Carlo Maria Martini 14 «Vi sono molti modi di rifiutare il Padre e il cammino verso di lui. Il più comune (e il più nascosto nell’inconscio) è di rifiutare la morte».

È lapidario Carlo Maria Martini quando parla del senso dell’atteggiamento umano nei confronti della morte. Essa non è un fatto da comprendere soltanto come un’evenienza fisiologica. La morte fa parte del destino umano (e in questo senso ha ragione Heidegger a definire l’uomo come Essere-per-la-morte come Sein zum Tode). Il giorno della morte è – nelle parole del cardinale che riprende sant’Ignazio d’Antiochia nella sua lettera ai romani – il giorno della nostra nascita.

Tutti muoiono e la morte è il regno del silenzio, ma ci sono morti che squarciano il velo e parlano della vita, la vita vera. Così la morte di Gesù parla della sua figliolanza. Il centurione vedendolo morire così esclamò: «questi era veramente il figlio di Dio». Anche la morte di Martini, accostata con un graduale ritiro nel silenzio della preghiera e della preparazione all’incontro con il Signore, è profetica… parla…

Oltre alla sua vita, il Cardinale ha parlato anche della morte, della sua realtà, dei suoi contorni. Le edizioni San Paolo offrono una raccolta di interventi del Cardinal Carlo Maria Martini che gravitano intorno all’ultimo articolo del Credo: Credo la vita eterna. Le meditazioni e le riflessioni rispecchiano l’inconfondibile stile del Cardinale che sa intrecciare felicemente intuizione esistenziale, ermeneutica biblica e afflato ignanziano.

Martini traccia un cammino di riflessione intorno ai temi del morire, della morte di Cristo e della sua risurrezione, dei novissimi, e della «piccola sorella» tra le virtù teologali (come chiama Charles Péguy la speranza). Tale cammino, intorno a temi spesso taciuti, sviati, temuti e repressi come la morte, l’avvicinarsi della fine punta a vederne i contorni umani legittimi di angoscia, sgomento, paura, senso di smarrimento, per aprire un varco di discernimento dall’interno della vita umana e dall’annuncio della speranza insito nella parola di Dio.

Gesù e la morte: un faccia a faccia

La riflessione del Cardinale prende le mosse dalla paura della morte, che è un istinto ineliminabile, «un fatto essenziale, brutto, in qualche modo ineliminabile; ed è garanzia di vivere, perché mobilita gli istinti di conservazione, di resistenza, di aggressività vitale. Non si può combattere la paura della morte con il ragionamento, perché scatta da sé, è invincibile» (18-19).

Non possiamo fare finta che questo sentimento non esista. E non possiamo, con un preteso spiritualismo, dimenticarci di essere incarnati. Gesù stesso attraversò la paura e l’angoscia della morte: «La mia anima è triste fino alla morte» (Cf. Mc 14,34). Una paura così forte da essere mortale.

Vivere è anche imparare ad aprirsi al mistero, al quale la morte fa come da sentinella. Vivere è anche imparare a morire. La morte, infatti, è «l’ultimo atto di tanti drammi di cui l’uomo è protagonista: malattia, vecchiaia, soprattutto se accompagnata da acciacchi e solitudine, stanchezza, esaurimenti nervosi, perdita del gusto del lavoro, degli incontri, della natura; […] Sono tutte forme di anticipazione della morte e per questo le viviamo con paura, con orrore, vorremmo che non fossero» (19).

 

Gesù riconosce di essere turbato e supera la paura attraversandola con un’insistente preghiera. (cf. Lc 22,43). La lettera agli Ebrei afferma riguardo a Cristo: «Egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (Eb 5,7). Gesù non fu esaudito con la liberazione dalla morte, ma con il conforto che gli ha permesso di superare la paura (25). «Gesù supera il timore della morte a caro prezzo; lo supera affrontandolo, pregando e lasciandosi confortare da Dio; lo supera uscendone perfezionato» (26).

La vicenda di Gesù ci conferma sul senso e sulla correlazione tra vita e morte. Un senso che risplende e s’invera con i bagliori del mattino di Pasqua. La correlazione è formulata da Giuliano Vigini, curatore del volume, così: «Se nascere vuol dire essere chiamati a un destino eterno, morire è andare incontro al compimento di tale destino».

Sorella morte

È dall’esperienza di Gesù che i santi e i martiri attingono le forze per affrontare la paura della morte. Abbiamo tantissimi esempi di un simile coraggio nella storia del cristianesimo nell’affrontare «sorella morte» (san Francesco) e nel «morire di non morire» (Teresa d’Avila). Ma già dai tempi apostolici abbiamo il superamento della paura della morte attestato dagli apostoli e dai primi martiri e che vediamo stigmatizzato nelle parole di Paolo: «Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno».

Un esempio lampante del pathos dell’amore che sconfigge la paura dalla morte è quello di sant’Ignazio d’Antiochia che considera la morte come momento della sua nascita: «È meglio per me morire per Gesù Cristo che estendere il mio impero fino ai confini della terra […]. È vicino il momento della mia nascita. Lasciate che io raggiunga la pura luce; giunto là, sarò veramente uomo. Lasciate che io imiti la passione del mio Dio. Vi scrivo che desidero morire. Ogni mio desiderio terreno è crocifisso e non c’è più in me fiamma alcuna per la materia, ma un’acqua viva mormora dentro di me e mi dice: Vieni al Padre». Il superamento della paura dalla morte è per il Poverello d’Assisi «la letizia perfetta».

Contemplando la vita dei santi ci si accorge però di un elemento fondamentale: il superamento della paura della morte non è uno sforzo umano, non è neppure un’acquisizione intellettuale o comportamentale, è frutto di un incontro con il Dio vivo, con il Cristo morto e risorto. Il superamento della paura della morte non è un’invenzione umana ma frutto di un’invocazione divina. Per riceverla non bisogna solo pensare, ma pregare con il cuore. «Passione di Cristo, confortami. Non permettere che mi separi da te. Dal maligno nemico difendimi. Nell’ora della morte chiamami e comandami di venire a te per lodarti con i santi in eterno».

La vita celata nella morte

Ma come abbiamo già anticipato all’inizio, la morte non è solo un fatto, essa è l’epilogo di un cammino e la porta d’accesso a un incontro, è l’ultimo e radicale atto di fede nell’amore di Dio e il definitivo affidamento alle/nelle braccia del Padre di Gesù Cristo. Intesa così, fa meno meraviglia l’attesa vissuta dai santi di quel giorno. Ognuno muore da solo e per se stesso, ma fare questo cammino nella fede, lo rende – nella difficoltà e innaturalità del morire che permane! – un incamminarsi verso un incontro, l’Incontro per eccellenza.

Così – per redimere la definizione Heideggeriana – l’uomo non è un essere per la morte ma un essere per l’Incontro, per l’unione con Dio. La morte è la via di passaggio verso la speranza della risurrezione che a sua volta è «la morte e risurrezione delle speranze umane» che dimostra «la miopia di tutto ciò che è meno di Dio e al tempo stesso fonda il valore di ogni gesto di amore autentico» (68). Vivere questa coscienza della morte diventa un impegno nuziale di attesa, di speranza e di preparazione del cuore. È – per usare un’espressione di Martini – «vivere i giorni feriali con il cuore della festa».

La festa che attraversa la morte superandola si fonda nell’evento pasquale di morte e risurrezione di Gesù che vive il morire come «consegna» dello Spirito nelle mani del Padre e accoglie la risurrezione come «ri-consegna» da parte del Padre dello stesso Spirito (cf. Rm 1,4). Così, il senso che l’evento pasquale dà alla morte non è teorico, non è un pensierino pio… Gesù non offre risposte ma si offre come presenza, come custodia, come grembo del dolore che raccoglie, feconda e fa germogliare la speranza celata dal buio dell’ignoto e irrigata dalle lacrime amare dell’assenza. Gesù «ci invita a entrare nel cuore del Figlio che si abbandona al Padre e a sentirci così dentro il mistero stesso della Trinità» (90).

Allora Martini tira le conclusioni sull’intreccio della storia e dell’eternità: «l’eternità, la vita nuova e definitiva è già entrata, con la morte e risurrezione di Gesù, nella mia esperienza. È da me vissuta, qui e adesso, nell’indistruttibilità dei gesti che compio: di amore, fedeltà, perdono, amicizia, onestà, libertà responsabile» (122).

Raddrizzando le categorie del morire, rilegge i «Novissimi» al di là degli abusi terroristici impiantati erroneamente nel nostro immaginario religioso. Dell’inferno ad esempio dice: «L’inferno, in quanto possibilità radicale, evidenzia la dignità suprema della vita umana, il valore sommo della vigilanza e la tragicità del male; proprio per questo e in tutto questo evidenzia l’amore del Dio che, creandoci senza di noi, non ci salverà senza di noi. Egli, infatti, che ci ha amato quando ancora eravamo peccatori, rimarrà separato da noi solo se noi ci ostineremo nell’essere separati da lui» (135).

Nel ricordo dell’amato Cardinale, la lettura di queste pagine assumono – oltre alla carica inimitabile di semplice profondità alla quale ci aveva abituato Martini – un carattere emotivo, testimoniale e prospettico.

Emotivo perché sentiamo ancora l’eco della parola di evangelizzatore instancabile, e cosa sarebbe il vangelo se non fosse soprattutto annuncio dell’Amore più forte della morte?!
Testimoniale perché traduce in parole udibili la fede silente con la quale il Cardinale visse il suo transito.
Prospettico perché lo sguardo che attraversa la morte è invitato a non soffermarsi sulla «malinconia del tempo inesorabilmente passato […] figlia dell’incredulità e madre della disperazione» ma a vivere il presente e la storia con lo sguardo rivolto a Cristo, nostra speranza e nostra vita.
Carlo-Maria-Martini – La salma in Duomo Carlo Maria Martini – La tomba in duomo 2Carlo Maria Martini benedice con l’Evangelario

Anima Christi

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